giovedì 27 dicembre 2012

Valle d'Aosta: un vuoto politico da riempire

Il clima pesante che abbiamo respirato in Valle d'Aosta da qualche anno presenta segnali di rottura. Il Presidente della Regione è stato più volte sconfitto su partite e battaglie piuttosto importanti. Alle elezioni a Courmayeur ha prevalso una lista civica rispetto a quella a lui riferita. Al referendum sul pirogassificatore ha dovuto assistere ad una vittoria contro un suo progetto edilizio e industriale che deve essere ascritta alla società civile prima ancora che ai partiti e movimenti rappresentati in Consiglio Valle. L'Assessore all'educazione e cultura si è dimesso dall'incarico senza che egli sia riuscito a trattenerlo dalla decisione.

Le tre recenti sconfitte del Presidente della Regione si sono svolte in un clima generale difficile, segnato dalla crisi economica, dalle riduzioni imposte al bilancio regionale e dalla conseguente contrazione della spesa pubblica in diversi settori :sui  forestali, sugli appalti, nell'acquisizione di beni e servizi. E non è finita: ancora si rincorrono le voci su problemi di cassa, con possibili impatti sul pagamento degli stipendi.

Il quadro è in movimento. I giornali (e i giornalisti) parlano con maggiore libertà, i commenti si moltiplicano, sollecitati dall'approssimarsi delle elezioni politiche e di quelle regionali.

I segnali di rottura e di movimento generano tuttavia speranze assai fragili. Il quadro resta in realtà drammaticamente immobile: i pezzi si muovono sulla stessa scacchiera, proprio mentre questa rischia di essere spazzata via.


Il cambiamento necessario di passo e di obiettivi del governo regionale diventa oggi quasi impossibile senza un ricambio della dirigenza politica: è per loro più facile e naturale l'arroccamento, la difesa a oltranza delle posizioni anche se queste condurranno alla più generale sconfitta.



1. L'ennesima diaspora unionista
Sta giungendo a compimento il procedimento con cui Laurent Viérin, Luciano Caveri, Andrea Rosset, Elso Gérandin e Luigi Bertschy stanno uscendo dall'Union Valdôtaine, un partito che perde pezzi e contenuti ormai da anni. La prima grande e grave perdita risale ancora agli anni Novanta, durante le due giunte Rollandin, quando un gruppo di unionisti solidamente ideologizzati furono prima emarginati e poi sostanzialmente allontanati dal movimento: e tra questi va ricordato Leonardo Tamone (mi perdoneranno gli altri del gruppo). Una seconda frattura è avvenuta - in modo assai traumatico -  con l'uscita dall'Union del gruppo che faceva capo a Robert Louvin e la nascita prima di Aosta viva e poi di Vallée d'Aoste Vive. Una terza frattura ha avuto luogo con l'uscita di un gruppo guidato da Carlo Perrin e con la nascita nel 2006 di Renouveau valdôtain.
Si tratta dunque di una quarta frattura. Non è dunque significativa come fu la nascita dei democratici Popolari e la frattura della DC valdostana negli anni Settanta. E' semplicemente un ulteriore segno di una crisi profonda del partito, e anche un'operazione di sostegno a sinistra.

2. Una diaspora organica e bersaniana ...
La quarta diaspora unionista non presenta caratteri di novità, e lo dico con rammarico. Il nuovo gruppo è naturalmente collocato sulla linea nazionale della sinistra di Bersani. Sono unionisti organici, e la loro storia lo conferma: Caveri fu sottosegretario del Governo d'Alema, e fu eletto al Parlamento europeo in apparentamento con le liste di sinistra. Laurent Viérin è figlio del Dino che governò in legame organico con i partiti eredi del PCI, sia a livello locale che nazionale, con riflessi diretti sulle scelte amministrative e tecniche (INVA, per dirne una), oltre che politiche.
Vi sono naturalmente anche buone ragioni a favore: si può per esempio dire che la sinistra è l'unica parte politica nazionale che ha storicamente difeso le autonomie regionali e in particolare l'autonomia valdostana. Ed è opinione condivisa anche a Bolzano dal presidente Durnwalder. Alla fine della fiera, però, lo scopo sarà semplicemente quello di aggiungere un senatore valdostano che possa (quasi sempre) essere fedele a Bersani. Il Senato è il punto debole di una maggioranza di sinistra: e si lavora a rinforzarla, con l'aiuto di Donzel, di Caveri e con ogni probabilità di Carlo Perrin di Alpe.

3. ... senza segnali di cambiamento
Non è una novità dunque se l'attuale minoranza di sinistra dell'Union torna a esplicitare il suo sostegno alla sinistra nazionale e nella fattispecie al progetto di Bersani. Lo fa nel segno della difesa delle posizioni (finanziarie) acquisite sul piano regionale, come è sempre avvenuto, e senza un "nuovo" programma per la Valle d'Aosta. Questo è il punto: "senza un nuovo programma".

Dall'altra parte - cioè nella maggioranza dell'Union - neppure si leggono segnali di cambiamento. La base politica del Pdl è gravemente scossa sul piano nazionale e questo inquieta un po' tutti. Nell'UV non si trova una prospettiva politica, un orizzonte, un percorso. Le reti interpersonali dei partiti regionalisti più piccoli si sfilacciano con la riduzione della capacità di spesa regionale (che è un nostro modo elegante per non parlare di clientele).
Eppure le scelte di governo e di amministrazione continuano sulla linea classica e durissima. Ancora di recente in commissione rifiuti si è cercato lo scontro con Valle virtuosa (e con i cittadini che hanno votato al referendum), come se non bastasse l'inceneritore politico che hanno costruito all'interno dell'UV. Il Comune di Aosta (con il suo Sindaco in testa) farà fronte alla riduzione delle entrate con qualche taglietto di spesa ma soprattutto aumentando l'IMU per tutti gli immobili diversi dalla prima casa, e quindi anche l'IMU per le imprese, alla faccia dello sviluppo. La RAI regionale, presidiata dalle due frange unioniste, dice che i trasporti vanno benissimo, e che i nuovi orari dei bus per Ivrea saranno una grande innovazione. Come se niente fosse, la maggioranza prosegue con la musica di sempre.
A sinistra si ripropone il modello del decennio scorso, una combinazione di concessioni finanziarie e politiche fondate sull'alleanza con il principale partito della sinistra nazionale. A destra si va avanti con le grandi opere ancora in cantiere senza averne i soldi e senza uno scenario politico per il futuro distinto dalle grandi opere stesse. Ed è tutto: non ci sono altre proposte.


4. Cosa manca in Valle d'Aosta: una proposta politica per uscire dalla crisi
A destra e a sinistra la politica regionale è immaginata come la gestione di un grosso welfare, di un meccanismo di spesa pubblica che sostiene le aziende e le famiglie valdostane. Non importa nulla dell'iniziativa imprenditoriale, se non nella sceneggiata (di nuovo) degli aiuti e dei programmi regionali ed europei. Anzi, le imprese sono viste come soggetti esterni, se possibile sottomessi, oppure almeno amici, a volte persino concorrenti. In generale, si pensa che delle imprese bisogna sempre diffidare.

A destra e a sinistra, l'offerta politica regionale pensa soltanto alla spesa, e non allo sviluppo. Forse una volta (più di venti-trent'anni fa) se ne parlava, ma ora non più. Quello che conta dell'Università è l'immobile da costruire e non il suo contenuto. Dei rifiuti non importa l'impatto ambientale e finanziario ma l'edificio da realizzare e i servizi pubblici da attribuire. Dei trasporti non importa l'effetto sulla rottura dell'isolamento, sullo sviluppo delle imprese e sui cittadini, ma il business delle infrastrutture e dei servizi. Vi sono sfumature ovviamente, ma il quadro è questo. Il pirogassificatore è infatti stato votato in Consiglio regionale senza grandi traumi, e con l'appoggio del PD. Sui costi autostradali si assiste a sceneggiate tutte orientate alla riduzione dei costi per i cittadini e non per le imprese. Di accessibilità non si parla, né a destra né a sinistra.

E' il punto di vista delle forze politiche, non dei cittadini che aspettano il treno a Ivrea o a Chivasso, che si chiedono se non costi troppo quella o quell'altra grande opera, che si chiedono come mai non si raccoglie l'umido. La domanda, i cittadini, ce l'hanno e ben chiara. Manca invece l'offerta, la proposta politica.

Per costruirla è sufficiente guardare la questione dall'altra parte, dalla parte opposta da cui la guardano UV e sinistre. Bisogna spostare l'attenzione su chi produce ricchezza e non solo su chi la distribuisce. Bisogna ridurre lo spazio e il perimetro dell'amministrazione pubblica (tutta: statale, regionale comunale, delle agenzie e delle partecipate) e lasciare più spazio ai valdostani, a coloro che producono, a quelli che vorrebbero produrre. Manca una proposta politica che non sia fondata sulla spesa ma che sia fondata sulle prospettive di sviluppo.

Non è retorica. E' possibile sin da ora azzerare l'IRAP in Valle d'Aosta. Bisogna portare a zero i margini di manovra di tutte le tasse manovrabili dalla Regione e dai Comuni. Bisogna ridurre al minimo le imposte per imprese. Bisogna eliminare l'indecente tassa sulle presenze turistiche. Bisogna ottenere una competenza in materia di manovrabilità fiscale. Bisogna creare condizioni favorevoli al mercato del lavoro affinché le imprese (private) tornino ad assumere e a produrre ricchezza.

Voi dite che si ridurranno le entrate della Regione? Allora benissimo. Allora sarà possibile far dimagrire la macchina pubblica, regionale e comunale. Forse non tutti si sono resi conto che si è perso il senno nel corso degli ultimi 20 anni. Ridurre l'amministrazione ai livelli degli anni Ottanta è possibile e fattibile. La Valle d'Aosta  ha la stessa pressione fiscale del resto d'Italia e probabilmente un numero di ladri pubblici numericamente inferiore. I nove e dieci decimi di imposte che gravano su imprese e famiglie valdostane entrano in Regione e hanno ingigantito il sistema pubblico. Alla fine hanno anche indebolito l'economia regionale. Le tasse che produce il sistema pubblico in stipendi e appalti  tornano alla Regione, e non sono ricchezza reale, sono soltanto una partita di giro. Le entrate della Regione vengono solo da 5-6 grandi imprese, dall'agroalimentare e dal turismo. Occorre preservare la fragile economia reale che abbiamo e ridarle ossigeno, permettere di rafforzarsi, di ricreare ricchezza e lavoro.
Nel nostro caso la Regione non è la soluzione, la Regione è il problema, e mi si permetterà la citazione d'epoca.

5. però manca anche il soggetto politico ...
Se tutte le forze politiche sono schierate sulla spesa e non sullo sviluppo, non si sa chi potrebbe far propria questa proposta politica.

Il livello di sopportazione massima è già stato raggiunto. La domanda di cambiamento emerge a tratti da diversi ambienti, anche politici. Alcuni esponenti di Alpe accennano ad un riconoscimento maggiore del ruolo della società civile e anche delle imprese, anche se il movimento nel suo complesso è piuttosto orientato alla sinistra (bersaniana o vendoliana). I renziani  pesano in percentuale più in in Valle d'Aosta che a livello nazionale, altro segno di domanda di cambiamento. Alcune aree e almeno un esponente del Pdl sembrano non aver completamente smarrito il breve sogno liberale del 1993-94, quando predicavano meno Regione e più impresa. E' una domanda profonda però molto più evidente nella società civile. Fermare il Declino di Oscar Giannino ha raccolto un primo gruppo di sostenitori, tra cui chi vi scrive, proponendo una scaletta di interventi per la Valle d'Aosta. Ma ancora non basta.

A questa domanda politica di robusto rinnovamento occorre rispondere con maggior forza e capacità. E' una domanda che ripone poche speranze nelle forze esterne alla Valle e nel rinnovamento italiano. Si chiede di far da soli, di migliorare la politica valdostana partendo dalle nostre energie. E' una domanda che chiede alla politica valdostana di riprendersi, di uscire dalle secche in cui è andata ad incastrarsi nel corso degli ultimi anni.

Serve un cambiamento - di cultura, di stile, di metodo, di contenuti - per sottrarci alla crisi di sviluppo all'orizzonte dei prossimi decenni, e per salvarci dalla tempesta che si annuncia sulle competenze regionali e sulla stessa autonomia della Valle d'Aosta. .









lunedì 17 dicembre 2012

Il fallimento del Congresso dell'Union: con l'ombrellino dinanzi alla tempesta.

Il Congresso dell'Union Valdôtaine si è chiuso con un fallimento. Vi sono tre ragioni per dare un giudizio di questa intensità: debolezza, prudenza, arroccamento.

Debolezza. L'Union valdôtaine è un partito debole, e ormai svuotato di contenuti. Da tempo ha perduto la capacità di elaborazione, che si è spenta almeno dal 2000, se non prima. Il costante adeguamento ai disegni e ai modelli politici e amministrativi nazionali, in particolare della sinistra tradizionale (se non addirittura d'alemiana), hanno annullato la ricerca di un proprio percorso politico. Le finali difficoltà della giunta Viérin, il leggero tentativo di ripresa "valdostana" di Perrin e il ritorno al modello statalista-comunista di Caveri hanno portato a compimento una crisi di identità del partito che è testimoniata dal continuo stillicidio degli abbandoni.
Nel 2008, molti valdostani votarono il ritorno di Rollandin convinti di affidarsi ad "une valeur sûre" che rimediasse all'improvvisazione politica e amministrativa degli anni precedenti. Invece, in pochi anni il suo personale patrimonio di credibilità è stato malamente dilapidato. Rollandin ha decretato l'inutilità di qualsiasi elaborazione politica, ha ridotto la gestione della Regione un piano di grandi opere senza un programma di stabilizzazione delle entrate e senza sentore di ciò che stava capitando all'esterno. Si è barricato - isolandosi - scegliendo un piccolo nucleo di pretoriani (spesso maltrattati), e creando con un triste silenzio intorno a sé.

Prudenza. Alcuni hanno avvertito il Capo della tempesta, che peraltro ormai era già arrivata, con i primi tagli alle entrate della Regione e l'esplicita minaccia di chiudere l'esperienza costituzionale dello Statuto speciale. Non le ha veramente ascoltate. Le ha forse un pochino tollerate, accompagnandole con un leggero gesto di fastidio. Chi se ne è fatto portavoce - anche eroicamente dinanzi al cipiglio del Capo - ha per forza dovuto adottare uno stile prudente. Onore quindi a Ego Perron, che ci ha provato: la prudenza è stata tuttavia il suo errore più grave. La mattina del Congresso han parlato solo gli ortodossi: il capissimo Rollandin, l'eroico ma prudente Perron, la pretoriana Rini, per poi mandare tutti a pranzo alla bocciofila di Pont-Saint-Martin. Il Congresso era allora già finito: senza obbligare sin da subito tutti al dibattito, il gioco era già chiuso. La prudenza è stata da un lato organizzativa: i tre potevano invece far due minuti di saluti e facilitare piuttosto l'emergere della protesta più dura, avrebbero potuto aprire la discussione. Avrebbero in questo modo mantenuto il controllo dell'agenda. L'han invece perduta, e chi non ha parlato (Viérin e i dissedenti) ha già annunciato che non rinnoverà la tessera. Drammaticamente prudenti e quindi fragili anche i contenuti: il rilancio del francese (da tempo in abbandono), l'annuncio di una protesta di piazza ma "condizionata" al buon comportamento del governo, il richiamo ad una formale unità del partito sono modalità per prepararsi alla tempesta con un ombrellino da sole.

Arroccamento. Debolezza e prudenza sono i segnali esteriori dell'arroccamento in cui si sono posti il Capo e l'Union valdôtaine da lui influenzata, di cui è stato testimone il Congresso. Senza idee e disegni per il futuro, sopravvalutando la solidità delle proprie mura, il Capo, i pretoriani, i critici e anche gli iscritti spaesati non vedono altra possibilità e prospettiva politica diversa dalla difesa a oltranza del modello organizzativo con cui è stata gestita l'autonomia, in particolare negli ultimi vent'anni. L'arroccamento è veramente deleterio, perché a sua volta esclude il dibattito, lo squalifica come inutile dinanzi alla tempesta, lo indica come nocivo all'unità e alla difesa del partito, prima ancora che dell'autonomia. Con il risultato di prendere per solide mura che invece sono fragili. Rollandin si è spolmonato in una disanima su temi costituzionali, dinanzi un Congresso un po' basito e un po' sperduto e sotto-sotto cosciente del fatto che se Roma vuol chiudere con l'autonomia speciale, ci impiega cinque minuti.
L'arroccamento produce però qualche fuga, di chi non regge più la perdita di buonsenso e di chi vorrebbe qualche cambiamento. L'Arroccato però non ci sente, ci rimane solo un po' male: le sconfitte di Courmayeur, del pirogassificatore, delle dimissioni di Viérin non lo fanno spostare di un millimetro. Gli fanno produrre soltanto modesti gesti di pace, e del tutto strumentali.

Se il Congresso dell'Union è stato un fallimento, nessun valdostano può stare allegro. Il punto è che non esiste una proposta politica solida alternativa, un programma sostenibile di sostituzione del Capo, una visione politica per la Valle d'Aosta (non solo per l'Union) diversa dall'arroccamento. Esistono segnali positivi che provengono dalla società civile, ma sono pochi e sparsi. La protesta che è stata per anni liquidata nell'angolino del radicalismo ha prodotto maggiore proposta, analisi e buonsenso dell'attuale politica ufficiale. Valle Virtuosa è andata fuori Valle a cercare idee e soluzioni, ha svecchiato i meccanismi di partecipazione, ha introdotto una vera novità politica nel grigio panorama politico degli ultimi anni. I renziani han perduto le primarie in Valle ma hanno acceso una lampadina diversa dall'ortodossa candelina ereditata dal PCI. I pendolari dicono cose più sensate degli uffici regionali e dell'assessore ai trasporti. Le proteste dei singoli vengono lette e rilette sui siti web.

Però non basta. Senza una sostituzione, la caduta di Rollandin può avvenire in perfetta coincidenza con la fine dell'autonomia. Con lui (consenziente) possono essere cancellati almeno duecento anni di battaglie, con le loro luci e le loro ombre. E la sostituzione non è un esercizio facile. Il gruppo d'élite che annuncia l'uscita dall'Union sotto la guida di Laurent Viérin sembra porsi in continuità con il prodismo e d'alemismo della giunta guidata da Dino Viérin, cioè tutta roba fuori dal tempo, anche se oggi in gran parte ripresa dai Vendola e dai Fassina. Dalle parti di Alpe non si riesce a uscire da un ruolo d'oppositori a vita. Gli altri quasi non esistono, se non in qualche caso individuale.

Faceva male sentire che nessuno al Congrès abbia detto una parola buona su Monti, che ha veramente contribuito a salvare le penne di un Paese allo stremo, di cui fa parte integrante anche l'economia di questa Regione, con un effetto diretto anche sui singoli cittadini valdostani. Nuoce all'ottimismo notare come non si parli che di spesa, e mai di entrate, di iniziativa imprenditoriale, di creatività aziendale. Che non si faccia veramente "autonomia", cioè disegno e una qualche speranza per il futuro della Valle d'Aosta.

Per come siamo messi, lo scenario non è per nulla buono.
Il Capo sta osservando un po' disperato gli ultimi attacchi all'autonomia. Scaccia con fastidio chi brontola, e prepara tristemente la pala per la sepoltura della specialità della Valle d'Aosta.



domenica 9 dicembre 2012

Chiudere le province, per favore

Ci sono ottimi motivi per portare a conclusione la riforma delle province.

Sono tutte ragioni a favore. E'un costo eccessivo, riconosciuto dalle istituzioni internazionali, dalle analisi economiche dotate di qualche competenze, e dal buon senso. Le prove sono dinanzi agli occhi di tutti ma in particolare da chi ha visto da vicino il funzionbamento delle province. Sono una vera dispersione di risorse e di energie, un luogo di spesa senza senso. Lo testimonia il fatto che quasi tutte pensino soltanto a costruirsi una sede gigantesca. Le province sono uno dei peggiori rubinetti aperti della spesa pubblica: e va   chiuso al più presto.
Le posizione contrarie alla riforma delle province sono quasi tutte strumentali. A costro di raccontare frottole, sui costi, sulla costituzionalità, sulal funzione fondamentale per i cittadini,, chi le occupa pensa solo al flusso di spesa che passa attraverso i loro bilanci. Sono la sede di cricche formidabili, e per chi è stato ad una delle riunioni tecniche dell'UPI è facile riconoscerlo.

Abbiamo detto che le posizioni contrarie sono "quasi" tutte strumentali. Qualche ragione per un ruolo delle province effettivamente c'è: la rappresentanza di alcuni territori e di loro identità, come Sondrio, la possibilità di elaborare proposte. Vi sono anche alcuni e pochi presidenti a cui si potrebbe stringere la mano, che operano per quel che possono, che hanno dato priorità alle scuole e alle poche strade di cui devono assicurare la manutenzione.
Ma allora, così come sono disegnate dalla riforma, le nuove province vanno benissimo. I sindaci che le comporrano le saranno portavoce di reali interesse territoriali, e non delle camarille e delle cricche, dentro o fuori i partiti o i clan. Saranno province più identitarie perché saranno  luogo di collaborazione dei Comuni - in una sussidiarietà orizzontale - e potranno davvero formulare proposte forse dotate di senso, anziché impegnarsi sull'aumento dell'IPT e delle loro entrate, da collocare soltanto in spese di funzionamento e nuove sedi elefantiache.

Dunque non si deve né si può tornare indietro e ciò malgrado la fine dell'esperienza del governo Monti. La domanda di riforma delle province viene da lontano, non solo da alcuni errori della riforma del Titolo V, ma anche da prima, dalla perdita della funzione, della "mission", delle province che si è vista almeno già negli anni Ottanta del secolo scorso. Lo voleva l'amministrazione centrale, lo riconoscevano i centri studi, e questo malgrado i convegni dal tono supino e retorico.
Destra e Sinistra hanno mostrato grande debolezza di governo su questo tema: volevano la riforma, e non hanno saputo governare le clientela e le cricche che resistevano. Hanno lasciato crescere e maturare il loro sindacato, l'UPI che per primo ora deve chiudere baracca, con il suo ultimo lobbista di sinistra che piace ai lobbisti di destra, il Presidente Saitta.

Per questo, la riforma delle province deve essere completata, e un atto al riguardo deve essere adottato entro la fine dell'anno. Probabilmente esistono nuove ragioni di necessità e urgenza per mettere mano al decreto in decadenza, e nel rispetto della sentenza del 1996 della Corte costituzionale. Forse occorre un nuovo testo e un nuovo decreto fondato su nuove ragioni d'urgenza. Oppure occorre una legge di conversione del decreto attuale.

Ma qualcosa bisogna fare.