domenica 13 gennaio 2013

Per una riscossa sabauda

Il Piemonte esprime molte figure di rilievo della classe dirigente nazionale. Idee, indirizzi politici ed economici,   tendenze sociali e culturali continuano a nascere a Torino e in Piemonte. Molte aziende e molti prodotti vedono la luce in Piemonte. Sebbene la Lombardia sia meglio integrata al sistema globale, sia più veloce, meglio dotata di strumenti finanziari, il Piemonte non ha perso la funzione di guida e di creazione di novità.

Litizzetto e Fazio, Mario Calabresi, Crosetto, Oscar Giannino, Arenaways e Italotreno, slow food e Eataly, la nutella e i ferrero rocher, le ricette della Parodi, la gazzosa di Lurisia e Napapijri sono Piemontesi, o al massimo appartengono al vecchio Regno di Sardegna, se si ingloba un pezzo di Liguria (da cui vengono Fazio ma anche Grillo) e la Valle d'Aosta (per Napapijri). A Torino si tiene la biennale della democrazia, si trova una formidabile concentrazione di librerie e di lettori, di libri, e di scrittori, che poi si ritrovano nei giornali, nella Corte costituzionale, nelle case editrici e nelle televisioni. Vi sono fabbriche di cui pochi hanno notizia e che producono macchine ai più sconosciute. Poi ci sono filatelici, rigattieri filosofi, cuochi che leggono e scrivono poesie, fotografi di qualità, grafici di livello internazionale, economisti e finanzieri, manager di impresa.



Tutte persone che hanno un'influenza. Che gestiscono il loro ruolo a Torino ma anche a Milano (e molti fanno infatti i pendolari) o a Roma. Ma che trovano forza e carburante morale non a Milano o Roma, ma a Torino.
Torino e il Piemonte, insomma, sono ancora una guida generale per il Paese. Sotto le spoglie di una zona apparentemente periferica, a Torino e in Piemonte si generano decisioni "profonde", che hanno un peso sul medio termine. Peccato che Torino non abbia coscienza di questo punto di forza. Anzi la città minimizza, si sottovaluta, si considera periferica, al traino, come una componente secondaria del sistema nazionale.

Torino dovrebbe avere migliore coscienza di questo suo ruolo e di questa funzione di guida nazionale. Ne avrebbe giovamento l'intero Paese.
La questione non è infatti sulla quantità di cose, sulla velocità e sull'influenza quotidiana, ma sulla forza e sul peso delle cose, sul loro effetto nel tempo, sulla loro durata e importanza. Il torinese è abbastanza cosciente della portata delle cose che produce, sa di collocarsi nella parte alta della scala dei valori e dei prodotti, ha idea che le cose che scrive, che dice o che crea non ci sono in giro, non sono dette o non esistono, e sono molto buone.
Purtroppo, non gli dà valore esterno, e qui scatta la natura ontologica piemontese. Le cose di fanno e non si dicono, lo stile è sobrio, non ci monta la testa, esageruma nen. E fino qui va molto bene, perché il resto del Paese per lo più esagera, gonfia, fabbrica vento facendolo passare per futuro, presenta plastica dicendo che è vita, celebra trionfi ed economie che sono cartapesta di un giorno o di un telegiornale. La sobrietà piemontese va dunque benissimo. Ma c'è anche un limite.

Quando vanno a Roma in riunione, i piemontesi si siedono ai margini del tavolo, o in ultima fila. Per parlare, nella cacofonia degli interessi particolari, parlano tutti, salvo i piemontesi. Poi, quando proprio devono parlare, i Piemontesi intervengono spesso per questioni tecniche, di applicazione, per ottenere una spiegazione su come fare i compiti a casa. A volte, i piemontesi fanno anche squadra, per portare a casa qualcosa, ma quando gli altri hanno già fatto man bassa.

D'altra parte, dal punto di vista degli altri, il Piemonte sconta ancora il suo ruolo nel processo di unificazione nazionale, e l'ostilità, anche se ben celata, è quasi sempre presente. I piemontesi sono spesso sottoposti ad un cordone sanitario, nei contenuti, nella forma. E loro stesso si adeguano, preoccupati nello spaesamento, oppure infastiditi, come fossero se invece che a Roma si trovassero all'estero.

Questo atteggiamento dovrà prima o poi essere superato.

Per prima cosa il Piemonte deve ricordare a se stesso la sua esistenza. Il Piemonte deve aver coscienza di esserci, di costituire ancora e sempre un punto fondamentale di guida del Paese.
Lasciare ancora che i dibattiti nazionali che preludono a scelte decisive per il Paese ma anche per il Piemonte siano svolti nella più totale confusione non va bene, soprattutto quando si hanno gli strumenti per bloccare le derive più becere. Non credo che il berlusconismo avrebbe avuto lo spazio di cui ha potuto approfittare se il Piemonte - e intendo le forze vive che ci sono in Piemonte - avesse reagito, avesse superato il suo nobile distacco e si fosse sporcate le mani con qualcosa di più rispetto a qualche rimprovero e lontano gesto di disprezzo. Abbiamo intere generazioni di italiani che hanno difficoltà di orientamento in ragione di scintille e di un rappresentazione della vita che non esiste, e che spesso è soltanto una proiezione oleografica e televisiva. Abbiamo una difficoltà di coesione famigliare, delle comunità, un calo della qualità dei rapporti sociali, della cura delle persone, dei rapporti di solidarietà. Se il Piemonte avesse avuto coscienza del suo ruolo, ne avesse assunto la responsabilità, qualcosa di meglio si sarebbe fatto.

Il secondo punto riguarda la qualità della vita - economica, politica, sociale -  in casa propria, cioè in Piemonte. La classe dirigente piemontese quando parla di politica guarda prevalentemente a quella nazionale, e trascura la propria. Le elezioni sono legislative nazionali, mentre quelle regionali, o anche comunali passano per secondarie, di poco interesse. Le si trascura perché si dimentica di mettere al centro della propria azione politica proprio la nostra casa. Così succede che i modelli nazionali, la confusione e il casino siano giunti a portare degli indegni teatrini all'interno del Consiglio regionale, a trasformare il Comune di Torino, ormai da decenni, in un luogo di non-democrazia, ma di espressione di interessi e gruppi, politici o di tribù. Luoghi trascurati dalla responsabilità eppure luoghi che assorbono miliardi di euro di imposte, che vengono poi spesi in grattacieli per la Provincia di Torino, in agenzie che si pongono come gabellieri tra un servizio pubblico e l'amministrazione, in appalti per amici, in carrozzoni che dipendono dall'una o dall'altra cricca. Miliardi di euro di tasse assorbiti in attività improduttive e penose. Davvero: per fare politica nazionale, il Piemonte deve prima di tutto fare una politica per il Piemonte stesso. Altrimenti anche il contributo nazionale risulta debole, confuso e disordinato.

Purtroppo, al Piemonte manca di un disegno per il suo futuro. Prima dell'Unità d'Italia almeno i tentativi si sprecavano. Le infrastrutture per collegare la Savoia, i sistemi di irrigazione, le innovazioni in agricoltura, i miglioramenti dei porti liguri, l'impegno sociale, gli ospedali, le azioni per i giovani e per le famiglie erano i pezzi di un disegno più ampio di miglioramento generale del Piemonte e del Regno di Sardegna.
Ora siamo al deserto. Non si trova una forza politica che abbia un disegno organico per il Piemonte, un disegno che possa poi comporre le altre tessere dello sviluppo del Paese.
Sulla TAV, il livello e i contenuti dello scontro denotano anni di assenza di visione politica. I pasticci in sanità e i buchi finanziari mostrano che è mancata non solo la responsabilità del decisore politico, ma anche che la società civile è stata incapace di censurare. Ed è la stessa società civile che fornisce idee, oggetti e impulso per la guida del Paese, insieme a vicedirettori, manager, artisti, funzionari e atleti. A Novara si sta creando il grande snodo nazionale tra due grandi corridoi di trasporto europei, il quinto e il nono: nel silenzio della politica. Da decenni la Regione Piemonte funziona con un bilancio provvisorio nei primi mesi dell'anno, come fosse una difficile regione del Mezzogiorno d'Italia. Come se avesse abiurato la tradizione amministrativa sabauda, come dimostrano i buchi nella sanità, la crisi di Alessandria, l'indegno gioco delle partecipate sulle spalle dei contribuenti pagatori di tasse.

Davvero, il Piemonte deve essere capace di auto-ribaltarsi come come un calzino, e deve riprendere il ruolo che gli spetta. Deve anzitutto rimettere a fuoco un disegno per il proprio futuro, che lo ricollochi nelle relazioni con la Francia (e la Savoia), la Svizzera, il Mediterraneo, l'Europa e il sistema globale. Darsi un disegno per il proprio futuro significa mettersi in sintonia con le imprese piemontesi che in questo disegno già si trovano, ma sole, e in fuga dalla facciata pubblica di cartapesta delle politiche di sviluppo. Allora avrà senso anche l'alta velocità, la concorrenza nei servizi di trasporto ferroviario, lo smantellamento delle strutture inutili. Perché sarà certo necessario fare una rapida piazza pulita di modi  amministrativi, organizzativi e decisionali che vengono da una cultura preunitaria di origine borbonica più che sabauda.

Dobbiamo liberarci di corruttele e clientele, di lentezze e cricche, a costo di ri-gerarchizzare e militarizzare l'amministrazione regionale e comunale. Non mancano i segnali di riscossa, che emergono dal alcuni esponenti della Lega, da fuoriusciti del centrodestra, da alcuni rari funzionari, da alcuni renziani, da alcuni circoli di giovani liberisti: ma deve divenire un obiettivo della classe dirigente tutta intera. In secondo luogo, il Piemonte deve andare in giro con chiara coscienza del ruolo che occupa in Italia, non mancando di tirare un buon scappellotto quando gli interlocutori scambiano la trattativa per un giochino da osteria o per un siparietto teatrale, in cui tutto poco dopo si dimentica.
In questo, gli alleati non mancano: a Varese, in Veneto, nel ducato di Modena, forse nel Granducato di Toscana, in qualche nicchia di un ufficio romano. Perché anche nel resto d'Italia  ci sono galantuomini, che vanno scovati a costo di usare il lanternino. Alcuni di loro hanno già ricordato che le parole sono importanti e che le parole contano, specie se sono pronunciate in Parlamento, o sotto un nave in affondamento. Altri si troveranno, con la schiena dritta, e pronti alla riscossa.