mercoledì 24 dicembre 2014

Revenir au Statut


Si l’on doit vraiment se remettre à réfléchir sur le passé et le futur de l’autonomie valdôtaine, force est de constater que la réforme constitutionnelle italienne de 2001, préparée par deux décennies de décentralisation, a échoué.

Visant une plus grande proximité au citoyen qui vote et qui contrôle, la réforme atterrissait dans un pays où les élites locales et régionales étaient déjà affaiblies par des décennies de mauvais gouvernement, où la cohésion sociale était effritée par un « familisme amoral » qui s’était emparé même des terres lombardes de Carlo Cattaneo. Si la décentralisation et le régionalisme à l’italienne faisaient état de l’incapacité du pouvoir central de gérer l’ensemble de l’action publique (dans une tendance d’ailleurs européenne et mondiale) le transfert des compétences est arrivé dans un environnement où tous les centres de pouvoir, élus et fonctionnaires, ne visaient qu’un renforcement de leurs structures, de leurs bureaux et de leurs moyens, avec une pression évidente sur les caisses publiques. Lors des réformes de décentralisation, les partis avaient déjà oublié à la fois les objectifs et le sens de leur mission. Leurs épaves ont vite disparu en laissant des organisations politiques personnalisées ou trop faibles, qui ne les ont pas remplacées, même pas à gauche, comme le témoigne bien la crise de la ville de Rome. Après « Mani Pulite », il n’a pas été possible de reconstruire durablement une passion civique et responsable.

La réaction d’une partie limitée de l’administration centrale, et parfois régionale ou locale, a assuré une navigation, bien que difficile et périlleuse, de l’Italie dans les grands défis de la mondialisation et de l’intégration européenne. La réforme constitutionnelle de 2001 était en effet très mal vue par l’administration centrale ...


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http://www.unionvaldotaine.org/nouvelles.asp?id=1399&cat=7&l=1&n=2196

sabato 22 novembre 2014

Il riflesso umbertino

(apparso sul sito di Alleanza liberaldemocratica per l'Italia il 20 novembre 2014)

Lasciamo perdere per un momento la sinistra e Renzi, guardiamo anche a destra, dove si ritrovano spesso posizioni anti-europee. Nel mondo "blu" si fatica spesso ad accettare che l’Italia sia collocata a occidente, in Europa e nel contesto atlantico. Da quelle parti, pur con molte differenze, vi sono tendenze dominanti che vanno nella stessa direzione: apertura dei mercati, integrazione monetaria, liberalizzazioni, rafforzamento dei diritti individuali, formazione collaborativa delle decisioni, tutela e promozione dell’ambiente come fattore patrimoniale, sussidiarietà, concorrenza territoriale, decentramento e responsabilità locale e regionale.

Finché la DC governava le pulsioni di destra, si manteneva anche una scuola europeista, più o meno modernizzatrice o di facciata. I partiti minori e laici affiancavano la costruzione delle politiche europee, e spesso aiutavano a tener dritta la barra del timone. Quando la DC è venuta meno, sotto la propaganda  liberale iniziale è riemersa la pulsione tradizionale dell’Italia preunitaria. Nella narrazione di centro-destra, l’apertura dei mercati ha largamente ceduto alla retorica della difesa dell’industria nazionale, le liberalizzazioni alle corporazioni dei mestieri e ai monopoli generali e territoriali, i diritti individuali ai valori assoluti, la governance alla preferenza per le decisioni verticali e prefettizie, l’ambiente ad uno sviluppo economico nello stile della prima rivoluzione industriale, la sussidiarietà e il decentramento al riaccentramento del "Torniamo allo Statuto". Pulsioni profonde neanche tanto nascoste da un velo di europeismo formale, da gesti falsamente ossequiosi a occidente.

E’ quanto l’Italia ha imparato negli anni dell’immediata costruzione dell’Unità, e che non ha più lasciato. Scandali e cricche che si ripetono, come ai tempi dello scandalo della Banca Romana oppure nell'autoritarismo sociale. Spinte alla modernizzazione pure ci sono state, anche a destra: tuttavia minoritarie, e qualche volta o spesso costrette obtorto collo a parlare a sinistra. Oggi, è un centro destra sconfitto che si presenta nei venti anni successivi alla DC, e sostanzialmente escluso dal circuito internazionale. Una parte s'è quindi rifugiata nel populismo, un'altra parte cerca nuove "Strade".

Nel vuoto di oggi, nelle macerie del centro destra, è facile osservare un gran fermento di iniziative. E’ un fatto positivo, dalla Leopolda blu a Italia Unica, alle associazioni che animano molte città. Eppure ancora riemerge il riflesso umbertino, di chiusura del mercato al contesto internazionale, di fastidio per la Francia, per la Germania, o per Albione, quindi per la costruzione e la collaborazione europea, per le direttive e orientamenti che pure votiamo. Fastidio verso le liberalizzazioni delle professioni – come è stato per l’associazione degli avvocati -  ostilità alle norme ambientali, disprezzo e sufficienza per le "mode" dell'innovazione e del digitale, e si ritrovano come nell'Ottocento gli innamoramenti per i  i più forti in geopolitica, ancor più se autoritari. Irresponsabile nella gestione della spesa pubblica, indifferente alla cattiva amministrazione locale e regionale, riemerge la banale e arcinota volontà di tornare al centralismo ministeriale, di far fuori le Regioni, di ostacolare la normativa comune europea. Una chiusura provinciale, che attraversa le persone e i movimenti nel centro-destra e che è prima di tutto culturale.

Questo riflesso umbertino non aiuta l’Italia, che già nell’Ottocento si lanciò in un grave immiserimento, e che oggi è del tutto fuori dal tempo. Talmente anacronistico che  non porterà l’Italia fuori dall’Europa e dal sistema atlantico, perché le forze in gioco – economiche, politiche, di contesto internazionale - ci vogliono dentro. 

Sceneggiate anti-atlantiche e anti-europee alla Salvini e della nuova destra, ma anche della narrazione moderata che si ritrova persino in alcuni di Scelta civica  sono destinate all’opposizione:  sono utili soltanto a tenere il centro destra lontano dal governo. E’ un riflesso umbertino che porta soltanto l’Italia indietro, che tiene lontani dallo sviluppo e dall’innovazione, dalla buona governance e dalla responsabilità del governo locale e regionale, dallo sviluppo e dai diritti. Un riflesso che delega a una sinistra alla fine vecchiotta, centralista e corporativa il governo locale, regione e centrale, e quindi la gestione del declino.

Eppure un’Italia civile si lamenta e s'indigna, si preoccupa dell’eduzione dei propri figli, ma anche esporta e inventa. Fermare il declino cercò di interpretare questa parte di Paese che ora è di nuovo priva di agganci e riferimenti, dopo la prima fiducia e poi le nuove delusioni dei mille giorni di Renzi, come fu per le speranze che Monti e in parte Letta inizialmente suscitarono. E sarà ancora isolata, se la destra guarderà allo Stato umbertino chiuso e trafficone, e la sinistra alle municipalizzate monopoliste e ai decadenti salotti bancari. 

Questa parte d'Italia dovrebbe farsi avanti, assumere direttamente responsabilità di indirizzo politico. D'altra parte in ogni sede di osservazione europea e occidentale s'ascolta solo un  auspicio: che l’Italia faccia un passo avanti, che una forza liberale si affermi e poi diventi dominante nel Paese.



sabato 20 settembre 2014

Perché Italia e Francia si apprestano a cedere più sovranità a Bruxelles


(apparso su Formiche.it il 10 settembre 2014)

Camicie bianche ai Festival, dichiarazioni sulla flessibilità del 3%, storytelling sulla crescita, dibattiti sullo spread, sul Pil, sull’inflazione e sul debito producono molto chiasso, un gran di rumore di fondo.

Non si distingue allora la voce, per quanto chiara e forte, del Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, vergata su cinque quotidiani nazionali europei, tra cui l’italiana La Stampa, domenica scorsa 7 settembre.

L’intervento di Padoan annuncia una decisione comune europea, da discutere all’Ecofin di Milano, venerdì 12 settembre 2014: un “growth pack”. Sembra che non ci sia nulla di nuovo, tanto si è ascoltato finora sulla crescita. Più chiaro è invece il titolo de La Stampa: “Riforme, più potere alla UE”.

L’intervento di Padoan non esce dalla sua sola penna, è palesemente uno scritto collettivo, per sintassi, narrazione e vocabolario: è un tipico testo europeo. È sulla scia del messaggio lanciato tempo fa da Mario Draghi, governatore della Banca centrale europea, circa la necessità di trasferire la competenza sulle riforme al piano europeo, sottraendola agli Stati nazionali.

Nelle ultime settimane, il contesto politico è infatti mutato. Il punto è uno soltanto: né l’Italia né la Francia riescono da sole a fare le riforme. Anche altri, deboli o forti, stentano, ma il punto di crisi è stato segnato proprio da questi due Paesi. Dopo la lunga e quieta rassegnazione di Chirac, lo sforzo, in parte chiassoso, di Sarkozy, non ha dato esito. Hollande, pur partito con altri obiettivi, si è messo al lavoro con il governo social-liberale di Manuel Valls, che aveva annunciato una revisione della spesa da 50 miliardi, ora affacciata sulle sabbie mobili. In Italia, dopo il ventennio di spesa di Berlusconi, Monti ha messo un freno all’emorragia e tracciato alcune riforme su cui hanno perso velocità prima Enrico Letta e poi Matteo Renzi, malgrado il rombante avvio.

giovedì 7 agosto 2014

Con la recessione e dopo la riforma del Senato, il primo Renzi ha già chiuso

La caduta del PIL italiano, il ritorno nella recessione è veramente una iattura. Lo scenario con un aumento del PIL allo 0,8% era più rasserenante. Era il contesto in cui erano state fatte le previsioni organizzative e politiche per i prossimi 8-12 mesi.

I tempi delle riforme restavano rapidi, almeno a parole. Prima il nuovo Senato, poi le misure di aggiustamento sulla pubblica amministrazione, poi i ritocchi al mercato del lavoro con qualche timida apertura alla modernità, poi qualche misura finanziaria non ancora svelata. A settembre, a riforma del Senato conclusa, con la vicenda delle province chiusa, il PIL sotto il 3%, le grandi linee della manovra finanziaria, due o tre nomi di sostituzione, Napolitano poteva dimettersi. Renzi avrebbe avuto uno o due anni davanti, qualche riconoscimento in Europa e forse in Occidente, e la possibilità di prendersi qualche libertà, fare qualche errore, distrarre la stampa o i partner con qualche mossa astuta.

Invece il PIL va giù, le riforme son lente e il Capo del governo si è già preso le sue piccole libertà. Egli si scontra con una palude nazionale assai densa, e la sua fretta diventa di pura facciata. Si dovrà di nuovo mettere mano a i conti pubblici, proprio mentre prudono le mani a spendere soldi che non si hanno, per salvare amministrazioni regionali e comunali spesso di sinistra, o per fare entrare nuovi impiegati al prezzo di ulteriori pensioni pagate con la fine del  "trattenimento in servizio".

L'Italia non va bene, John Kerry incoraggia Renzi alle riforme come se fosse un ultimo appello, ma la stampa occidentale e anglofona ha già espresso il lapidario giudizio negativo.

Napolitano poteva dimettersi, e non può più. Le riforme avrebbero potuto avanzare in modo più spedito, ma così non è andata. Le libertà che Renzi avrebbe potuto prendersi "dopo aver guadagnato la fiducia in Europa" sono state bruciate in anticipo, con la candidatura di Francesca Mogherini ad Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione europea, perseverando con la lettera del primo agosto, ricca di forzature tipiche della politica toscana. La manovra d'autunno è tutta da costruire, mentre il ministro dell'Economia e il Commissario per il contenimento della spesa pensano (da tempo) di far le valigie. L'agenda delle riforme da aggiornare in gran fretta dinnanzi al volto minaccioso di sindacati, notai, avvocati, tassisti, gestori di impianti balneari e di benzinai, impiegati comunali ed ex-provinciali: sul lavoro, sul rilancio dell'attività economica (cioè sul rapporto tra spesa pubblica, imposizione fiscale, libertà di impresa e occupazione).

Anziché trovare il sostituto di Napolitano, bisognerà piuttosto immaginare un sostituto a Renzi. Forse Renzi stesso, ma capace di accettare Letta a Bruxelles, oppure Bonino rispetto a Mogherini. Forse Renzi stesso ma capace di dar priorità alla riduzione dell'IRAP e della pressione fiscale, alla netta riforma del modo di fare amministrazione, all'introduzione di più libertà, capaci di liberare al lavoro persone che oggi, a milioni, si trovano a scrivere e correggere delibere e decreti in ogni livello dell'amministrazione pubblica e parapubblica. Forse Renzi stesso, oppure un altro, o forse anche con un'altra maggioranza.

Forse Renzi stesso, ma con la mano guidata dall'esterno, come già ha anticipato Mario Draghi sull'incapacità (italiana e francese) di fare le riforme senza l'aiuto della troika. O forse con un nuovo Presidente della Repubblica che riprenda le redini del Paese mettendo il collare al presidente del Consiglio.

In ogni caso, con l'avvento della recessione e dopo la riforma del Senato, il primo Renzi ha già chiuso.

sabato 10 maggio 2014

Yves Mény rompe sei paradigmi europei e riapre il cantiere dell'integrazione

Ad ascoltare i candidati alla carica di Presidente della Commissione europea - Juncker, Verhofstadt, Bové e Schultz - il 9 maggio dal Salone dei Cinquecento a Firenze e su Rainews24, si potevano trarre una rassicurazione e un segnale di forza dell'Europa: politica economica, politica estera e di difesa, rapporto dinamico e vivo tra le istituzioni, priorità politiche. Anche Bové, uno dei leader del movimento no-global, parlava nel linguaggio europeo, e condivideva metodi e concetti che furono di Jean Monnet, primo tra tutti il principio che attribuisce alla Commissione il ruolo di motore indipendente, collegiale ed "europeo", del processo di integrazione.

L'Europa non va bene, però, ed è a molti evidente che occorra oggi un cambio di visione.
Yves Mény, a lungo Presidente dell'Istituto Universitario Europeo di Firenze e ora Presidente della Scuola superiore Sant'Anna di Pisa ha redatto un breve articolo per il Mulino (Unione europea: too big to fail?, Il Mulino, 2/2014, pp.183-198) che testimonia la rottura della visione tradizionale. E' un testo che va letto e conservato.

Mény prende in considerazione sei classici postulati/paradigmi: lo "spill over", "wider is wiser", "almeno nella pratica Europa e Unione europea sono la stessa cosa", "l'incremento del commercio è necessariamente positivo per i partner degli scambi", "un ristretto gruppo di funzionari europei provvede al processo regolativo per il bene di tutti e spetta agli Stati membri applicarlo", "l'elezione diretta del Parlamento europeo avrebbe prodotto automaticamente un sistema democratico".

La rottura dei sei postulati è descritta con franchezza e anche con una certa brutalità. Lo spill over (il trascinamento di una nuova competenza comune a seguito degli effetti della competenza attuata) si è bloccato per le resistenze degli Stati membri che impongono revisioni dei Trattati impossibili a realizzarsi; l'allargamento è un fatto artificiale di cui ancora tutti hanno paura; l'universalismo dell'adesione all'Unione è un concetto astratto e idealista, foriero di conseguenze impreviste (Ucraina, Svizzera, ma anche Bulgaria e Romania); esiste una realtà di squilibri commerciali senza che sia accompagnata da meccanismi di perequazione; il dispotismo illuminato ma centralista dei processi decisionali dell'Unione (riecheggiando l'indipendenza della Commissione alla Monnet), è di fatto imposto a territori e Stati che non si possono sottrarre, ma che fanno buon gioco, adattandosi o riducendo l'impatto di alcune delle decisioni, anche non adeguandosi; è infondata la narrazione della democrazia attraverso il parlamento europeo, il quale, se pur concretamente esiste, non è accompagnato dall'humus e dal contesto che costituiscono la realtà democratica, dalla rappresentatività alla partecipazione degli individui e dei gruppi, dalla scelta al controllo dei governi.

Il testo di Mény è importante anche nella seconda parte, in cui le considerazioni sono più libere ma anche più incerte, rivolte come sono al futuro. Le tre prospettive - tirare a campare, disintegrare, fare un salto radicale - sono già sentite, ma suona utile la loro fredda elencazione. La prima, "sopravvivere" - una specie di "tirare a campare" - è quella dominante, in cui l'inerzia del progetto domina sugli errori e sui sovraccosti, economici, politici e sociali, indotti dalla crisi, ma in cui si trae comunque vantaggio dalla scala, cioè dalla condivisione europea di politiche, rischi, ruolo. La seconda è quella dello smontaggio, cioè della "dis-integrazione" europea, cioè della riduzione progressiva e gestita della condivisione di politiche e decisioni, in cui si ritrova per esempio la posizione di Cameron. La terza è quella del "salto radicale", promossa dagli anti-europei: uscire dall'euro, dall'Europa, recuperare lo stato nazione, in un fronte che unisce Lega Nord, lepenisti 2.0 ecc.

Riconoscendo una maggior probabilità al primo scenario ("sopravvivere") e lasciando intravvedere contaminazioni tra le diverse ipotesi -  nel testo di Meny si trovano anche alcune indicazioni e segnali difficili da incasellare.
Il trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance prevedeva l'entrata in vigore dopo che 12 su 17 stati dell'eurozona l'avevano ratificato: è una rottura almeno parziale, e sebbene dettata dalla crisi, del meccanismo dell'unanimità nato con la "chaise vide" di De Gaulle e con il compromesso di Lussemburgo, sia pure sotto le usuali vesti del trattato internazionale. La Corte costituzionale tedesca, "arcigna guardiana" della Legge fondamentale, ha di recente chiesto l'opinione"pregiudiziale" alla Corte di giustizia europea, con il significato politico sui primati delle fonti del diritto (anche costituzionale, quindi) che accompagnano il gesto.

Chi ha osservato il dibattito tra i  candidati a Presidente della Commissione, a Firenze, il 9 maggio, avrà notato ugualmente la novità del cambiamento. Mentre si sviluppa la crisi, è in corso infatti una federalizzazione dell'Unione europea. E' una federalizzazione tecnica secondo Mény, ma anche con risvolto politico, se il dibattito al Salone dei Cinquecento  va inquadrato nell'humus di una democrazia in costruzione, che sotto un Parlamento europeo ancora artificiale e astratto inizia a sviluppare alcuni partiti europei e a produrre un dibattito televisivo tra candidati.

Il cantiere europeo è stato chiuso a soffrire nei piani "B" dopo il referendum  francese e quello olandese del 2005.
Oggi, nel 2014, si vedono di nuovo operai al lavoro..

Enrico Martial
10 maggio 2014

(Yves Mény, L'Unione europa,: too big to fail?, "Il Mulino", 2/2014, pp.183-198)













lunedì 7 aprile 2014

Un contributo al dibattito sulla crisi di governo regionale in Valle d'Aosta



1. La crisi economica - globale e italiana - ha avuto importanti ripercussioni sulla Valle d’Aosta, in particolare con una significativa riduzione delle risorse destinate al bilancio regionale. Anche le trasformazioni politiche e sociali italiane – dal fallimento nell’attuazione della riforma del Titolo V del 2001, alle crisi nel funzionamento dell’amministrazione e della rappresentanza politica, all’indebolimento della coesione sociale e al declino culturale – hanno avuto riflessi importanti sulla vita politica valdostana, con una forte polarizzazione del dibattito, e l’introduzione di problemi di natura economica, istituzionale, sociale-culturale.
La crisi economica e l’impatto sul bilancio regionale hanno costretto a concentrare gli sforzi di governo su diverse questioni, nella gestione dei programmi di investimento pubblici, del welfare, nella crisi occupazionale e di interi settori economici, come quello edile. L’Ente Regione ha assicurato la gestione, anche se a volte difficile, e la conservazione dell’insieme del welfare regionale, con le decisioni e gli adattamenti che sono stati di volta in volta necessari.

venerdì 31 gennaio 2014

Del disastro maggioritario nelle Regioni, o dell'opportunità di una riforma


Con la riforma costituzionale del 2001, mentre si ampliavano ruolo e competenze delle Regioni, si stabilì anche di rafforzarne la capacità operativa. Le responsabilità trasferite richiedevano Regioni in grado di gestirle con efficacia.

Le politiche di accentramento statale, che pure resistevano in qualche parte dell’amministrazione, erano fallite: un giudizio concreto e confermato nei decenni, sull’esito dell’organizzazione umbertina post-unitaria, sugli effetti del modello statuale fascista, sulle dispersioni e inefficienze dello stato accentrato repubblicano. Una lunga battaglia politica e una densa letteratura guardava al decentramento e anche al federalismo, da Sturzo a Gobetti, da Cattaneo al dibattito della Costituente, da Salvemini a Emilio Lussu e poi fino alla Lega. Poi, più sommessamente, il decentramento e la sua attuazione si preparavano con libri, decisioni, azioni di sindaci, partiti, uffici di programmazione, centri di competenze, di discussione e di elaborazione.