(apparso su Formiche.it il 10 settembre 2014)
Camicie bianche ai Festival, dichiarazioni sulla
flessibilità del 3%, storytelling sulla crescita, dibattiti sullo spread, sul
Pil, sull’inflazione e sul debito producono molto chiasso, un gran di rumore di
fondo.
Non si distingue allora la voce, per quanto chiara e forte,
del Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, vergata su cinque quotidiani
nazionali europei, tra cui l’italiana La Stampa, domenica scorsa 7 settembre.
L’intervento di Padoan annuncia una decisione comune
europea, da discutere all’Ecofin di Milano, venerdì 12 settembre 2014: un
“growth pack”. Sembra che non ci sia nulla di nuovo, tanto si è ascoltato
finora sulla crescita. Più chiaro è invece il titolo de La Stampa: “Riforme, più potere alla UE”.
L’intervento di Padoan non esce dalla sua sola penna, è
palesemente uno scritto collettivo, per sintassi, narrazione e vocabolario: è
un tipico testo europeo. È sulla scia del messaggio lanciato tempo fa da Mario
Draghi, governatore della Banca centrale europea, circa la necessità di
trasferire la competenza sulle riforme al piano europeo, sottraendola agli
Stati nazionali.
Nelle ultime
settimane, il contesto politico è infatti mutato. Il punto è uno soltanto:
né l’Italia né la Francia riescono da sole a fare le riforme. Anche altri,
deboli o forti, stentano, ma il punto di crisi è stato segnato proprio da
questi due Paesi. Dopo la lunga e quieta rassegnazione di Chirac, lo sforzo, in
parte chiassoso, di Sarkozy, non ha dato esito. Hollande, pur partito con altri
obiettivi, si è messo al lavoro con il governo social-liberale di Manuel Valls,
che aveva annunciato una revisione della spesa da 50 miliardi, ora affacciata
sulle sabbie mobili. In Italia, dopo il ventennio di spesa di Berlusconi, Monti
ha messo un freno all’emorragia e tracciato alcune riforme su cui hanno perso
velocità prima Enrico Letta e poi Matteo Renzi, malgrado il rombante avvio.
Ad agosto, Valls
ha sostanzialmente rinunciato a completare la riforma di semplificazione dei
livelli territoriali (11 miliardi di risparmi) in attesa della rielezione di
una parte del Senato. Sempre ad agosto, pur sventolando il risultato, Renzi ha
mostrato il prezzo politico da pagare per avviare (soltanto avviare) la riforma
del Senato e del Titolo V, mentre il debito è aumentato di 100 miliardi in sei
mesi, e mentre ad oggi le Province sembrano ancora intatte. Nei due casi
nazionali, a fine agosto e in entrambi i governi, vi è stata un’ammissione
d’incapacità a proseguire con la velocità richiesta. Nel caso di Valls è stato
necessario un rimpasto di governo, con l’espulsione della linea della spesa di
Arnaud Montebourg, una tragica caduta nei sondaggi e l’agitazione lepenista, e
in Italia si è passati dal cambio di verso al più quieto “storytelling” dei
“Mille Giorni”, cioè a una specie di “tirare a campare”.
Questa rinuncia alla
battaglia fa il paio con la decisione di spostare la competenza sulle
riforme dal livello nazionale al livello europeo. Draghi batte il tema da tempo
e a inizio agosto il Presidente Renzi aveva mal reagito (“l’Italia non ha
bisogno di altri che le spieghino cosa fare”). La proposta è stata poi
rilanciata ancora da Draghi il 22 agosto a Jackson Hole, dicendo che occorre
portare le “riforme strutturali entro lo stesso tipo di cornice che abbiamo già
per la disciplina di bilancio” e quindi (per limitarci all’Italia) cavalcata da
Renzi il 29 agosto, come titolava il Messaggero “La mossa di Renzi: riforme
coordinate dalla UE in cambio di flessibilità”.
Per questo, in vista dell’Ecofin di Milano del 12 settembre,
l’intervento di Padoan è un passaggio importante e sostanzialmente scontato. La
competenza si sposta sul piano europeo anche per “fornire alle autorità
nazionali strumenti per contrastare i gruppi di pressione che si oppongono alle
riforme strutturali”. Sono parole limpide.
Ci vorranno tuttavia un’operazione di comunicazione e alcune
misure concrete. Si sta profilando infatti un panino, in cui le riforme stanno
in mezzo e la parte più visibile sarà dedicata alla crescita, con molte parole
alla stampa, alla sinistra del PD, all’Assemblée nationale francese.
La comunicazione sarà poi accompagnata da un pochino di
respiro. “Includere gli effetti delle riforme sulla crescita futura nel calcolo
delle compatibilità macroeconomiche nazionali” introduce un po’ di flessibilità
nei bilanci, come in un fido bancario con obbligo di rientro. Si rafforzerà il
coordinamento nelle politiche di spesa (ricerca e innovazione, come nei fondi
strutturali, che in Italia non funzionano) e si valorizzeranno i benefici delle
riforme stesse (più occupazione, che richiede però politiche del lavoro più
rapide e smart).
Le riforme sono già note e riguardano il superamento delle
spese improduttive (concentrate dell’apparato pubblico), la rimozione di
vincoli alla produzione e al lavoro (corporativi e di gruppi), il risanamento
dei bilanci. Anche il metodo è chiaro. La direttiva è uno strumento superato:
la liberalizzazione della Bolkenstein era una buona cosa, ma molto si è arenato
nell’attuazione dei singoli Paesi, sottoposti alle pressioni dei gruppi di
interesse organizzati, dalle spiagge agli enti locali.
In condizioni
d’urgenza, tra crisi ucraina e crescita zero, il modello alternativo
esiste, ed è un pack, formato da uno o più regolamenti, quindi direttamente
applicabili negli Stati membri, con sanzioni e interventi della Commissione
europea e della magistratura, nazionale ed europea. Passato il tempo delle
direttive, lente da recepire, foriere di applicazioni furbette, di ritardi, di
infrazioni, si passa da venerdì 12 settembre a un percorso di medio termine,
che mescola gerarchia e partenariato. Come ricordava Draghi, è la cornice “che
abbiamo già per la disciplina di bilancio”.
Si tratta del
“Semestre europeo”, cioè di un processo comune di sorveglianza e anche di
guida delle politiche economico-finanziarie nazionali su cui sarà bene d’ora in
poi, anche in Italia, aver maggiore contezza e informazione. A partire dal 12
settembre prossimo, e in vista della verifica del Semestre sui conti nazionali,
prevista per il 15 ottobre, data a cui Francia e Italia, appunto, guardano con
preoccupazione.